New Review | UFFE LORENZEN – Galmandsværk




Uffe Lorenzen – Galmandsværk


Già con l’omonimo disco del 2009 dei Baby Woodrose il buon Lorenzo ci ha fatto ascoltare un disco interamente concepito e suonato in prima persona. E con il progetto Spids Nøgenhat ha introdotto la sua lingua madre nell’universo psichedelico che lo accompagna da sempre. In altre parole, l’ultima sua uscita “Galmandsværk” consolida e fonde assieme queste due prerogative.
La novità semmai è rappresentata dal fatto che il disco è intitolato a suo nome (Uffe Lorenzen), quasi si voglia mettere una firma autografa ad una produzione che questa volta ci ha fotografato interiormente. L’immagine che ne esce fuori è quella di un fantastico hippie che viaggia nel tempo e si ritrova al fianco di George Harrison e John Lennon lungo l’argine del Rishikesh (“På Kanten af Verden”, “Blues for Havet”).
È tutto un fiorire di flauti, sitar, chitarre acustiche, tempi rilassati, joint fumanti e amore libero. Con una riflessione: tutto questo è una fuga dalla realtà verso un mondo incantato, desiderato e parallelo, definitivamente impossibile. Lorenzo lo fa consapevolmente, affidando il compito al mezzo escapista per eccellenza: la musica. Viene quasi da piangere sentendolo nelle splendide “Ny By” (una delle poche occasioni in cui sentiamo un piccolo fuzz, in sottofondo e – sorpresa! – lo xilofono) e “Flippertøs” (chitarra acustica, flauto, djembe e voce), vera perla di scrittura autoctona del nostro. Altre volte si incarna in un’incazzato Richie Havens (ricordiamo la sua versione di “Freedom” nell’album omonimo di qualche mese fa) in “Sang Om Merværdi” o indossa le vesti dello space crooner alla maniera di Nik Turner (“Høj Som et Højhus”), ma il mood centrale dell’album è quello intimista, con il tocco elegante di un grande scrittore di favole acide e romantiche per adulti (“Dansker”).
Cosa resterà nella memoria musicale di questo secondo decennio del secolo ventunesimo? Sicuramente non “Galmandsværk”. Piccolo classico di psichedelia destinata ai ricercatori di arche perdute.

Eugenio Di Giacomantonio