New Review | DEADM MEADOW - Force Form Free

 

Dead Meadow – Force Form Free

Solo i Dead Meadow possono superare i Dead Meadow. La band di Washington è giunta con “Force Form Free” all’ottavo album in studio e sforna, senza mezzi termini, il suo capolavoro.

Qualcosa è profondamente cambiato. Qualcosa è notevolmente cresciuto. Jason Simon ha dato atto, nel corso della sua carriera (Dead Meadow su tutti, ma anche un terzetto di album a suo nome – senza dimenticare la meteora Old Testament), di essere uno musicista ispirato. Beh, qui ci sono i suoi pezzi migliori. E pensare che canta pochissimo. E la sua band ha un marchio di fabbrica riconoscibile e consolidato. Però… qui c’è qualcosa che non riconosciamo subito come tipicamente loro, qualcosa che ci sfugge. Ma andiamo con ordine e esaminiamo un pezzo alla volta.

L’iniziale “The Left Hand Path” è una introduzione ieratica e pesante, un mono tono che si muove minaccioso dentro una coltre nubi distorte e lente. Sono i Dead Meadow che conosciamo, quelli stoner, quelli che affondano il colpo con il fuzz, quelli di “Sleepy Silver Door”. Poi il pezzo si apre in una melodia consolatoria e pacificata. E qui si segna il corso dell’intero album: aprire il proprio stile a sofisticatezze leggere.

“The Lure of the Next Peak” è un viaggio liquido verso gli astri dettato da suoni sintetici. Un perdersi dentro ad armonie circolari e ripetitive, dove l’inalazione di erbe mediche deve costituire un rito spirituale, un’espansione dei propri sensi. La terza “Valmont’s Pad” è una sorpresa. Puro Morricone vintage, nelle colonne sonore di Silvano Agosti (da recuperare alcune sue gemme come “Il giardino delle delizie”, 1967). Un beat epocale in cui la chitarra di Jason accarezza e miagola con un wah-wah sofisticato, in combutta con le tastiere che citano apertamente i fine Anni 60. Siamo lì, a ballare davanti a scenografie optical, inebriati da sostanze illegali. Che delizia!

Ed ecco la voce di Jason, dopo un quarto d’ora dall’inizio dell’album, in “To Let the Time Go By”. Il pezzo vive nelle trame acustiche tipiche dei suoi album solisti e ci proiettano sui monti Appalachi, davanti ad un fuoco, mentre fuori cade, silenziosa, la neve. Nella title track ritorna protagonista il Big Muff su un riff che ricorda i tempi di “Shivering King and Others”. Anche qui siamo al cospetto di un brano strumentale. Sembra che l’estetica di tutto l’album sia proprio questa: togliere il superfluo. Rimanere con la sintesi della prima idea musicale. Non allungare. Non annacquare.

Così, nella conclusiva “Binah”, si torna a sentire la voce di Jason, in un pezzo che sembra evocare i tramonti indiani visti dai Fab Four ai tempi del “White Album”. Una delizia mielosa che vede la chitarra un passo indietro, per lasciare il proscenio agli altri strumenti. Dicevamo che sono i Dead Meadow possono superare i Dead Meadow. Così è!

Eugenio Di Giacomantonio