Brant Bjork – Mankind Woman
Altro bel colpo piazzato dalla romana Heavy Psych Sounds: dopo The Revolt Against Tired Noises degli Yawning Man arriva Mankind Woman, tredicesimo album in studio di Brant Bjork,
un ragazzo che genuinamente rappresenta la parte migliore,
incontaminata e spirituale di tutta la scena desert psych americana. Sia
negli album dei gruppi maggiori (Kyuss, Fu Manchu, Vista Chino) che dei
minori (oltre agli splendidi Ché e Ten East il nostro ha suonato tra
Desert Sessions, Fatso Jetson, Mondo Generator e nella meteora che fu Yellow #5),
Brant ha donato il suo stile black flower power senza condizionamenti.
Ogni volta che sentiamo il suo tocco, il suo modo di interpretare un
pezzo, quello che viene fuori è pura anima.
Andiamo un passo indietro a risentire Tres Dias o Local Angel, album privi o quasi di elettricità: qualcosa di simile ad una preghiera, un colloquio con la parte magica e trascendente della vita. Quando ha iniziato a realizzare i suoi album solisti si respirava un’aria famigliare e domestica; uno scorcio casalingo sul suo modo di suonare e registrare lontano dalla confusione e dalle contaminazioni altrui (Jalamanta, edito dalla Man’s Ruin nel 1999, o Keep Your Cool del 2003).
Negli anni Bjork ha aperto il ventaglio delle collaborazioni ad amici vicini e lontani: ne son venuti fuori album come Brant Bjork and The Operators (con Mathias Schneeberger e Mario Lalli), Saved by Magic (Brant Bjork e i The Bros.) e Somera Sol (con la Low Desert Punk Band) che nonostante gli arrangiamenti più elaborati non riuscivano a schiacciare il presupposto originario di Brant: lasciare la musica spontanea.
Negli ultimi album, da Black Flower Power del 2014 ad oggi, il fatto di essere in una band sempre più stabile ha condizionato il nostro portandolo verso un songwriting meno autoriflessivo ed inclusivo delle varie sensibilità degli altri elementi in studio. Così è anche quest’ultimo Mankind Woman, che se da un lato manca degli aspetti più emotivi del suo autore, dall’altro mette sul tavolo un album ben scritto e ben suonato. Compartecipe alla scrittura è il chitarrista della Low Desert Punk Band, Bubba Dupree, e per la prima volta assistiamo alla performace di Sean Wheeler alla voce in alcuni pezzi (Nation of Indica, Somebody e Pretty Hairy).
Il mood sleazy di Brant esce fuori in pezzi soulful come la doppietta Lazy Wizard e Pisces, in cui il suono della chitarra, quel suono specifico unito al suo caldo timbro vocale, manda l’ascoltatore in un’altra dimensione. Altre volte la visione originale del nostro viene contaminata dai suoi ascolti (a tal proposito c’è da ricordare la scena in cui Brant sfoglia la sua collezione di dischi nel film Sabbia del 2006 per comprendere in quali e tali direzioni proviene la sua espressione artistica) come nella title track, che parte da un riff hendrixiano per scontrarsi frontalmente con lo stile dei Deep Purple. Ottime anche 1968 e Brand New Old Times, quest’ ultima dolce e scanzonata con un riff circolare che si imprime nella testa, mentre la prima è un urlo primitivo che descrive il tempo distopico che vive il nostro.
Brant Bjork è patrimonio dell’umanità: un artista come lui ogni cinquant’anni e la musica sarebbe salva per sempre.
Eugenio Di Giacomantonio
Andiamo un passo indietro a risentire Tres Dias o Local Angel, album privi o quasi di elettricità: qualcosa di simile ad una preghiera, un colloquio con la parte magica e trascendente della vita. Quando ha iniziato a realizzare i suoi album solisti si respirava un’aria famigliare e domestica; uno scorcio casalingo sul suo modo di suonare e registrare lontano dalla confusione e dalle contaminazioni altrui (Jalamanta, edito dalla Man’s Ruin nel 1999, o Keep Your Cool del 2003).
Negli anni Bjork ha aperto il ventaglio delle collaborazioni ad amici vicini e lontani: ne son venuti fuori album come Brant Bjork and The Operators (con Mathias Schneeberger e Mario Lalli), Saved by Magic (Brant Bjork e i The Bros.) e Somera Sol (con la Low Desert Punk Band) che nonostante gli arrangiamenti più elaborati non riuscivano a schiacciare il presupposto originario di Brant: lasciare la musica spontanea.
Negli ultimi album, da Black Flower Power del 2014 ad oggi, il fatto di essere in una band sempre più stabile ha condizionato il nostro portandolo verso un songwriting meno autoriflessivo ed inclusivo delle varie sensibilità degli altri elementi in studio. Così è anche quest’ultimo Mankind Woman, che se da un lato manca degli aspetti più emotivi del suo autore, dall’altro mette sul tavolo un album ben scritto e ben suonato. Compartecipe alla scrittura è il chitarrista della Low Desert Punk Band, Bubba Dupree, e per la prima volta assistiamo alla performace di Sean Wheeler alla voce in alcuni pezzi (Nation of Indica, Somebody e Pretty Hairy).
Il mood sleazy di Brant esce fuori in pezzi soulful come la doppietta Lazy Wizard e Pisces, in cui il suono della chitarra, quel suono specifico unito al suo caldo timbro vocale, manda l’ascoltatore in un’altra dimensione. Altre volte la visione originale del nostro viene contaminata dai suoi ascolti (a tal proposito c’è da ricordare la scena in cui Brant sfoglia la sua collezione di dischi nel film Sabbia del 2006 per comprendere in quali e tali direzioni proviene la sua espressione artistica) come nella title track, che parte da un riff hendrixiano per scontrarsi frontalmente con lo stile dei Deep Purple. Ottime anche 1968 e Brand New Old Times, quest’ ultima dolce e scanzonata con un riff circolare che si imprime nella testa, mentre la prima è un urlo primitivo che descrive il tempo distopico che vive il nostro.
Brant Bjork è patrimonio dell’umanità: un artista come lui ogni cinquant’anni e la musica sarebbe salva per sempre.
Eugenio Di Giacomantonio