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EARTH + SABBATH ASSEMBLY Roma – Init Club - 27/04/2011 L'accoppiata Earth e Sabbath Assembly all'Init di Roma prelude ad una serata magnifica. I primi hanno messo a fuoco ancora meglio la propria proposta musicale ficcando sotto il naso di tutti un capolavoro di assoluta bellezza come "Angels of Darkness, Demons of Light I". Degli altri incuriosiscono le premesse per cui si sono fondati: rispolverare, tra gli oltre 60 inni esistenti della Process Church of Final Judgement, una quindicina di pezzi e suonarli come una band. Scelta interessante e molto rischiosa, data la distanza che separa questi "canti rituali" dalla loro autentica concezione ad una trasposizione in chiave rock. Infatti, sin dalle prime note, i limiti sono evidenti: i Sabbath Assembly risultano scoordinati e privi di mordente. Dal canto suo Jex Thoth ce la mette tutta per offrirci una performance attraente e misteriosa ma il risultato è un incrocio tra una brutta copia di "Jesus Christ Superstar" e una cover band di Coven e Jefferson Airplane. Inoltre la mancanza degli arrangiamenti sinuosi di organo e piano che troviamo nel loro lavoro in studio, impoverisce ulteriormente l'ascolto, facendo risultare il tutto ancora più macchinoso e indigesto. Peccato. Speriamo che la band in sede live riveda meglio come giocarsi le proprie carte per offrire uno spettacolo meglio correlato all'idea originale di rito pagano. Con gli Earth la musica cambia. Signore e signori ecco a voi un distinto cowboy di mezza età di nome Dylan Carlson! Di lui è stato detto di tutto: miglior amico di Kurt Cobain, eroinomane all'ultimo stadio, rumorista doom e appassionato di musica astratta e sperimentale. Porta in giro la sua band, questa volta composta solo da donne che abbracciano batteria (Adrienne Davies), violoncello (Lori Goldston) e basso (Angelina Baldoz): il risultato sonoro è impressionante. Dylan dirige il tutto fedele ai suoi percorsi mentali. Affina le armoniche. Guarda negli occhi la sua compagna Adrienne e devia il flusso in luoghi che solo lui conosce. Non suona: si determina. Si intuisce un rigore di studio verso la quintessenza della massa musicale. I tempi bellissimi di "Pentastar" e "Earth 2" sono lontani, ma quello che abbiamo in ascolto oggi è molto di più. È la voce dell'Ouroboros: simbolo dell'eterno ritorno. E così, ascoltandolo, gli spazi si fanno astratti e il tempo indeterminato... La partenza è algida e allo stesso tempo feroce: i 15 minuti di "Hell's Winter" fanno capire ai presenti che il viaggio è iniziato. Si procede per esaltazione dei silenzi e delle pause. Si intuisce il cammino, si segue passo dopo passo la maestria della chitarra; poi, nel momento esatto in cui credevamo di aver ceduto ad una circolarità famigliare, ecco la frattura: una nota in meno, un allungamento della struttura melodica, cambiano panorami ai nostri orizzonti. Delizioso è il modo in cui Adrienne suona la batteria senza quasi toccarla: è lei il diaframma tra lo spleen desertico della chitarra e la profondità del violoncello. Seguono "Old Black", espressione languida e penetrante degli Angeli dell'Oscurità, un vertice espressivo come "High Command" o "Maestoso in F(lat) Minor" che non fa rimpiangere l'assenza dell'originale distorsione, tanto è eloquente la bellezza della composizione, e la cinematica "Descend to the Zenith", dove i fantasmi del folk inglese compaiono in una assolata prateria americana. Nel finale i brividi percorrono la spina dorsale. Il solo violoncello introduce "Angels of Darkness, Demons of Light I". Puro misticismo d'esplorazione divina. Il ritmo, per quanto possibile, si fa ancora più lento, quasi nullo. Poche note di chitarra fendono la trama fitta e scura per farci scoprire lentamente i passaggi melodici. Emerge un sussulto di batteria accompagnato da note di basso rimbombanti. Dylan chiude gli occhi per perdersi dentro i chiaroscuri della mente. Noi siamo con lui. Gli angeli delle tenebre sono e saranno sempre in eterna lotta contro i demoni luminosi… Eugenio Di Giacomantonio |